COSA MI E' PIACIUTO:
è impossibile giudicare questo film senza tenere nel dovuto conto
la sua enorme importanza nella storia del cinema italiano. E a parte
l'originalità stilistica, che aprirà la strada a un'epoca
fondamentale della nostra cinematografia, i meriti dell'opera sono evidenti
di per sé. Nei momenti migliori, i dialoghi sono perfetti per
la loro naturalezza, pregio insolito per un film italiano d'allora,
eleganti nella forma e significativi nei contenuti.Vi sono alcune scene
la cui potenza drammatica lascia attoniti, come quella, celeberrima,
in cui Pina (Anna Magnani) corre per strada chiamando a gran voce il
suo Francesco, una sequenza-simbolo del neorealismo italiano assieme
ai finali di Ladri di biciclette e Umberto D. Notevole anche la sequenza
conclusiva. E tuttavia non sono infrequenti i tocchi di delicato umorismo,
nella prima parte. Splendide le prove di Aldo Fabrizi e di Anna Magnani.
Bravo anche il piccolo Vito Annichiarico.
COSA NON MI HA CONVINTO: i tedeschi parlano un italiano completamente
inverosimile: l'innaturale forbitezza del loro linguaggio, con la risibile
velatura di un preteso accento germanico (che scompare quando il doppiatore
se ne dimentica), si impasta sgradevolmente con la goffaggine un po'
manichea con cui i loro personaggi vengono disegnati. E l'ufficiale
sbronzo che ne dice quattro al suo collega carnefice non fa che peggiorare
il quadro, perché figura come una pezza ingenuamente apposta
per ristabilire un minimo di equilibrio. Di sgradevole grevità
il gesto della donna tedesca che va a ripigliarsi la pelliccia: è
l'esatto opposto della soave, commovente leggerezza con cui Renoir ci
mostra, ne La grande illusione, l'ufficiale interpretato da
von Stroheim che recide un fiore per donarlo idealmente alla sua vittima.
Un alito di insopportabile retorica soffia qua e là (la chiacchierata
di Pina e Francesco seduti sulle scale, l'apologo sullo squallore della
vita che Marina, l'attricetta tossicomane, recita seduta sul suo letto
fissando un punto lontano, 45 gradi più in là rispetto
all'occhio della macchina da presa).
CURIOSITA': forse mi sbaglio, ma ho l'impressione
che Nanni Moretti, nell'interpretare il suo Don Giulio ne La messa
è finita, si sia ispirato almeno in parte al don Pietro
di Fabrizi.
Ho visto Roma città aperta in
italiano, con i sottotitoli in francese per i dialoghi in lingua tedesca.
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