COSA MI E' PIACIUTO:
il cinema di Bresson è un grande esempio di sobrietà,
che non è mai né lentezza né compiacimento della
cripticità. Tantomeno qui, dove si racconta una storia vera,
e ove si compie il miracolo del raggiungimento della massima tensione
nonostante la certezza della riuscita della fuga - che si ha addirittura
a partire dal titolo. In questo modo Bresson scalda il cuore a noi trepidanti
osservatori così come la speranza di un'evasione quasi impossibile
ispira le gesta del protagonista. Ci sembra in questo modo di rileggere
il diario della nostra salvezza. E mentre il titolo principale riesce
addirittura a sintetizzare la trama del film, il sottotitolo, Le
vent souffle où il vaut, esprime il sottinteso significato
filosofico del racconto, che comunque è fatto anche molto di
pura fisicità, per esempio nella costruzione degli oggetti che
serviranno per l'evasione: la camera di Bresson ci porta vicino alle
mani di Fontaine che lavorano febbrilmente ma con sicura abilità,
facendoci per un momento dimenticare perché il prigioniero sta
facendo quelle cose, come lui s'impone di dimenticare, per il bene dell'impresa,
che ogni minimo errore gli costerà la vita. La violenza non viene
mai mostrata, ma solo adombrata con rumori, o inquadrature "altrove",
che permettono al narratore, per pudore e per pietà, di "buttare
gli occhi in fallo laterale", come direbbe il grande Bohumil Hrabal.
Si alternano i semplici rumori al Kyrie della Messa in do minore di
Mozart.
COSA NON MI HA CONVINTO: ma scherziamo?
Ho visto Un condannato a morte è fuggito
in francese con i sottotitoli in italiano.
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